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LA GUERRA DEL PREZZO DEL PETROLIO E LA CORSA ALLA LEADERSHIP IN MEDIORIENTE

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Il 2015 è cominciato all’insegna di un diffuso calo degli indici dei mercati azionari, dove gli operatori sono stati spinti a rinunciare agli asset ritenuti più rischiosi a causa della paventata eventualità del “grexit” e dell’incertezza politica in Grecia, dove i sondaggi danno in vantaggio alle prossime elezioni il partito Syriza di Alexis Tsipras, che ha promesso battaglia all’austerity imposta ad Atene dalla Trojka.
L’altro motivo per cui i mercati stanno subendo perdite per centinaia di miliardi di dollari, in questi giorni, è dato dall’ennesimo calo dei prezzi del greggio, che negli Stati Uniti è crollato sotto i 50 dollari, con conseguenze più o meno gravi per gli attori in campo: “Tale caduta dei prezzi sta andando oltre le aspettative e questo peserà anche sui guadagni delle società Usa del settore energetico”[1] , ha commentato Hirozaku Kabeya, senior strategist di Daiwa Securities. La drastica riduzione del prezzo del greggio ci mostra, poi, come la produzione petrolifera russa sia oggi ai livelli più alti dell’era post-sovietica e l’export iracheno sia vicino ai massimi da 35 anni.
Il petrolio nel gennaio del 2015 costa, al barile, 20 dollari in meno rispetto ad un anno fa. Per comprendere meglio l’anomalia basta considerare che il prezzo del greggio oscilla storicamente tra i 70 ed i 110 dollari al barile, per cui è pacifico constatare il dissesto economico dei paesi esportatori di greggio e le perdite per le compagnie energetiche.
Un posto di lavoro su tre, creato negli Stati Uniti dopo il crollo finanziario del 2008 è legato al boom dell’esplorazione di petrolio e gas da formazioni rocciose (chiamato fracking). Gli Usa in questo modo hanno iniziato a produrre più petrolio e gas della Russia o dell’Arabia Saudita – divenendo un esportatore netto di energia. Ciò ha costituito una parte enorme della ripresa economica negli Stati Uniti. Ma questa trasformazione economica è minacciata oggi dall’Arabia Saudita che continua a produrre quasi 9 milioni di barili di petrolio, senza alcun riguardo per la domanda globale di energia, portando ad una contrazione dei prezzi energetici ed alla riduzione degli investimenti in ricerca di petrolio e gas negli Stati Uniti. Infatti non solo l’esplorazione ma anche l’estrazione si sta velocemente arrestando, esponendo pericolosamente l’economia statiunitense.
Per queste ragioni e per le conseguenze di natura geopolitica, il crollo del prezzo del petrolio rientra tra gli eventi economici più importanti del 2014, che avrà importanti conseguenze anche nell’anno appena subentrato.

 

LA GUERRA DEI PREZZI

Il crollo del prezzo del petrolio è la conseguenza di un semplice assunto economico secondo cui, data la domanda mondiale di un bene, la riduzione del livello di produzione (e quindi dell’offerta) di quel bene ne provoca un aumento del prezzo data la minore quantità disponibile sul mercato. Ma i paesi dell’Opec (il cartello che riunisce gli stati esportatori di petrolio) guidati dall’Arabia Saudita, hanno scelto di mantenere inalterati i livelli di produzione nonostante l’eccesso di offerta globale e la persistente richiesta di Iran e Venezuela, stati membri del cartello, di tagliare la produzione.
“Il crollo dei prezzi mondiali del petrolio farà male ai paesi di tutto il Medio Oriente a meno che l’Arabia Saudita – il più grande esportatore di greggio al mondo – non intervenga per scongiurare la crisi”, ha affermato Hossein Amir Abdollahian, il vice ministro degli esteri iraniano a Reuters.

 

CORSA ALL’EGEMONIA REGIONALE

Ma quello della “guerra dei prezzi”, come diffusamente definita dagli iraniani, è l’ennesimo capitolo delle continue tensioni tra la Repubblica Islamica sciita ed il Regno saudita sunnita, che proseguono senza esclusione di colpi la corsa per il potere e l’influenza regionale, nonostante le speranze di riavvicinamento dopo l’insediamento del nuovo Presidente iraniano Hassan Rouhani nell’agosto del 2013 [2].
L’Iran con l’elezione di Rouhani, per uscire dalla morsa delle sanzioni ha accettato di negoziare i termini del proprio programma nucleare con i paesi del “5+1″ (composto dagli stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania) che premono affinché l’Iran limiti la propria capacità nucleare riducendo il numero delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio a qualche migliaio per assicurare tempi lunghi nel caso in cui l’Iran decidesse di costruire armi nucleari. Ma le prove di dialogo non assicurano la riuscita della trattativa e per il 15 gennaio è prevista la ripresa dei colloqui.
Se l’eventualità di “riammettere” l’Iran nella comunità internazionale alletta i capitali di Stati Uniti ed Unione Europea, sempre alla ricerca di nuovi mercati e nuovi partner commerciali, tra i sostenitori dello status quo ci sono Israele e Arabia Saudita, appunto, che paventano le ambizioni nucleari di Teheran e cercano di intralciare le prove di dialogo. I sauditi temono il tradimento degli Usa, così come avvenuto per l’Egitto di Mubarak, avamposto sunnita nel Mediterraneo, nonché la possibilità di una coalizione ostile formata da Iran, Turchia e quegli stati del GCC che sostengono la Fratellanza musulmana e cercano di emergere sul piano internazionale, come il Qatar con cui l’Iran condivide la proprietà del più grande giacimento di gas al mondo: il North Dome- South Pars. Poi c’è l’Oman, il più fidato alleato dell’Iran nel Golfo Persico, con cui condivide la sovranità sullo Stretto di Hormuz, importante check-point da dove passa un quinto del petrolio scambiato sui mercati globali.
In Israele sono in molti ad ammettere dei progressi rispetto al regime di Ahmadinejad, ma si ritiene che Rouhani non sia realmente alla guida del paese e che la svolta moderata nella politica iraniana sia una strategia della Suprema guida spirituale Ali Khamenei, il vero “deus ex machina” della politica iraniana. Il sostegno iraniano ad Hezbollah e Hamas, nonché l’impegno, condiviso con la Russia, di mantenere Assad al potere in Siria, restano i principali ostacoli al confronto tra i due paesi. Nel frattempo Israele cerca di bloccare i progressi dei colloqui sul nucleare iraniano facendo pressione sulla maggioranza repubblicana in seno al Congresso degli Stati Uniti [3].
L’Arabia Saudita cerca, invece, di convincere Obama ad abbandonare la via del dialogo con il competitor sciita rivolgendogli contro la stessa arma che gli Stati Uniti hanno utilizzato per mettere in ginocchio le economie dell’Iran e della Russia, data la loro dipendenza dalle esportazioni di gas e petrolio: incoraggiando l’Arabia Saudita a far scendere il prezzo del greggio, in una guerra economica che adesso rischia di coinvolgere gli stessi Stati Uniti.

 

LA CRISI DOPO LE SANZIONI

Le pesanti sanzioni imposte da più di un decennio da Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite a causa del mancato accordo sul programma nucleare iraniano, l’isolamento internazionale e la crisi del prezzo del petrolio hanno messo l’economia dell’Iran in crisi. Tale situazione sta spingendo il paese a rivedere la propria spesa pubblica ed a cercare misure tali da dare sollievo alle disastrate casse nazionali, come la decisione di dare la possibilità ai giovani di “comprare” l’esclusione dai due anni di servizio militare obbligatorio. Si tratta di una misura emblematica della situazione che attraversa il paese, considerando che l’Iran ha relazioni piuttosto turbolente con quasi tutti i suoi vicini e che possiede un esercito di quasi mezzo milione di soldati, in gran parte coscritti. [4]
Permettere ai più ricchi di acquistare l’esenzione dalla coscrizione militare avrà il duplice effetto di migliorare i conti e di dare l’opportunità a molti giovani iraniani di impegnarsi in attività economicamente più redditizie per il paese o di proseguire gli studi.
Ma per far fronte al dissesto economico, Teheran dovrebbe attuare riforme strutturali, superando l’attuale sistema fiscale particolarmente inefficiente e arretrato, diversificare l’economia, dato che circa un terzo delle entrate pubbliche proviene dalle esportazioni di petrolio: il Paese è in possesso della quarta più grossa riserva di petrolio al mondo ed è il secondo paese esportatore dell’OPEC, dietro l’Arabia Saudita.
In questo contesto i riformisti iraniani sembrano avere maggiori margini di manovra. Sono stati loro a proporre la legge sull’acquisto dell’esenzione dalla coscrizione obbligatoria, che avevano già proposto nel 1999 in circostanze simili. Ma oggi, la Suprema guida, Khamenei sembra maggiormente disponibile ad una svolta moderata e potrebbe aprire all’ammodernamento del regime fiscale e soprattutto potrebbe liberare il settore privato, dando maggiore dinamismo all’economia.

 

LO SCACCHIERE MEDIORIENTALE

La pace passa in secondo piano quando in gioco ci sono interessi strategici inconciliabili e l’Arabia Saudita non sembra minimamente intenzionata a desistere in questa guerra contro Iran e Russia che hanno fermamente sostenuto il regime di Assad in Siria. Ma più in generale difficilmente potrà esservi pace tra due paesi che si pongono in concorrenza sui mercati, gli investimenti e le influenze in tutto il Medio Oriente. E l’Arabia Saudita sa bene che mettere fuorigioco Iran e Siria porterebbe nuove opportunità per i sauditi ed i propri alleati.
Nella “guerra economica” contro l’Iran e la Russia, l’Arabia Saudita ha il potenziale per indebolire i propri avversari attraverso la recessione economica, il caos interno ed il malcontento popolare, consentendo in tal modo una possibile invasione della Siria o magari dell’Ucraina orientale o persino dell’Iran.
Appare poi intollerabile per l’Arabia Saudita che un quinto della produzione mondiale di petrolio (e la maggior parte della produzione saudita) debba passare attraverso lo stretto di Hormuz – check-point posto sotto il controllo degli iraniani.

Ma la potenza regionale dell’Iran è sostenuta dalle sue connessioni politiche e religiose in tutto il Medio Oriente. L’Iran esercita la propria influenza sulla maggioranza sciita in Iraq, ma anche sull’organizzazione sciita Hezbollah e sugli sciiti alla guida della Siria, in quella che viene definita la “Mezzaluna sciita”. Esistono anche consistenti popolazioni sciite oppresse in Arabia Saudita, Bahrain, Yemen, e Turchia che agiscono come spine nel fianco dei governi settari sunniti, dando all’Iran una potente base politica su cui fare affidamento in ogni paese. A queste preoccupazioni, per l’Arabia Saudita si aggiunge il fatto che quasi tutta la produzione di petrolio e gas dei sauditi, si concentra in province a maggioranza sciita, situate vicino al Golfo Persico.
Il ritratto dell’Iran come “difensore degli sciiti”, dunque, non può che contrapporsi all’Arabia Saudita, nei diversi, seppur simili fronti in Medio Oriente: ad esempio, quando l’Arabia Saudita ha annunciato una sentenza di morte per un popolare religioso sciita, l’Iran ha risposto che ci sarebbero state “conseguenze” se la condanna fosse stata eseguita. Ma esistono situazioni ben più difficili da affrontare come nello Yemen, dove è in atto un’insurrezione da parte della popolazione sciita contro il governo sunnita, sostenuto dall’Arabia Saudita, che finanzia i combattenti di al-Qaeda contro di loro. Oppure in Libano, dove l’Iran sostiene Hezbollah, o in Bahrain dove la maggioranza sciita della popolazione (70% del totale) si è rivoltata contro la dinastia sunnita al potere, che ha deluso le aspettative democratiche dei cittadini e perpetra da tempo discriminazioni interconfessionali.
L’Iran non vuole perdere il controllo dell’Iraq e della Siria, a maggioranza sciita, dato che ha sempre ricoperto una posizione centrale nella strategia regionale iraniana, risultando di vitale importanza per gli interessi strategici di Teheran. È l’anello principale della catena di deterrenza contro Israele che passa, attraverso Damasco, per Hezbollah, Hamas e il Jihad islamico palestinese. Negli ultimi due anni la Repubblica Islamica ha investito, a fondo perduto, 10 miliardi di dollari in sostegno finanziario all’establishment ba’athista. Centralità espressa recentemente dall’Hojatoleslam Mehdi Taaib, direttore di un think-tank vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, il quale ha dichiarato molto significativamente che “la Siria è la 35° provincia iraniana e ha un’importanza strategica rilevante. Se perdiamo la Siria non potremo tenerci Teheran.” [5] Ma la Siria e l’Iraq ricoprono un ruolo importante per l’Iran anche per lo sviluppo di una rete di gasdotti in grado di arrivare nel Mediterraneo e in Europa, a cui nel 2013 è stato dato il nome di “Gasdotto dell’Amicizia” [6] e si pone in alternativa al gasdotto russo South Stream ed al Nabucco, promosso dall’Unione Europea. (che prevedeva la costruzione di un gasdotto che da Iraq, Azerbaigian e Turkmenistan raggiungeva l’Europa attraverso la Turchia. In un primo momento anche l’Iran venne considerato come fonte energetica, dato il controllo del più grande giacimento di gas del mondo, il North Dome/South Pars, ma in seguito venne escluso dal progetto.)
La corsa alla leadership regionale è ormai evidente e per Teheran non sarà facile giungere entro giugno ad un accordo favorevole sul nucleare ed uscire dall’isolamento internazionale; l’Arabia Saudita continua la propria “guerra dei prezzi”, ma per quanto ancora potrà permetterselo?

NOTE
[1] Reuters; Indici negativi su greggio, timori Grecia;
[2] Reuters; IRAN: Saudi Arabia Is Making A “Serious Mistake”; Michelle Moghtader;
[3] European Council on foreign relations; Post-Nuclear – The future for Iran in its neighbourhood;
[4] Il Post; I guai dell’Iran per la crisi del petrolio;
[5] Limes, Rivista italiana di geopolitica; Le mosse dell’Iran nella guerra di Siria, di Nima Baheli;
[6] Osservatorio Iraq; Iran, Iraq, Siria e il “Gasdotto dell’Amicizia”, di Giovanni Andriolo;

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