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VIVERE E MORIRE A DAMASCO: IL VERO VOLTO DEL DISASTRO SIRIANO

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“Congratulazioni alla Siria, il cui popolo ha resistito ad ogni forma di egemonia e di oppressione con tutti i mezzi disponibili: con la sua ragione, con l’intelletto e con la coscienza patriottica. Ci sono coloro che combattono con le armi in pugno, coloro che combattono raccontando la verità e coloro che continuano a combattere con il loro grande cuore nonostante tutte le minacce.” Queste sono le parole del Presidente Bashar al-Assad, pronunciate nel discorso alla cerimonia di insediamento per il suo terzo mandato presidenziale, conquistato con l’ 88,7% dei suffragi espressi, circa il 65% dell’elettorato.

Un vero e proprio plebiscito: mai e poi mai il timido oculista di Damasco avrebbe immaginato di ritrovarsi in una tale situazione. Certamente il Paese dovette affrontare una prima delicatissima fase – dopo l’indipendenza del 1946 – caratterizzata da una lunga serie di colpi di stato, che terminarono con l’arrivo di suo padre al potere, Ḥāfiẓ al-Asad (1970-2000) e del suo partito Ba‘th (Rinascita), grazie al quale si pervenne a una certa stabilità.

Il Ba’th fu fondato nel 1943 da Mišīl ‘Aflaq e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār, l’uno di religione ortodossa e l’altro sunnita, i quali nel corso dei loro studi a Parigi vennero in contatto con teorie di carattere socialista che poi applicarono al loro nascente movimento, caratterizzato appunto dalla triade: Unità, Libertà, Socialismo. Tale movimento aveva come base il rilancio del patrimonio storico-culturale arabo, reputando l’Islam come elemento sicuramente importante ma non esclusivo, e presentandosi come partito che avrebbe potuto garantire una certo equilibrio in un Paese diviso e frammentato sia socialmente che culturalmente. Parliamo di una nazione multiconfessionale, nella quale il Governo e l’Assemblea Nazionale sono composti da tutte le rappresentanze etniche e religiose del popolo siriano.

Tornando ai nostri giorni, si può senza alcun dubbio affermare che il marzo 2011 ha rappresentato un punto di non ritorno per la Siria. Da quelle proteste di piazza che scossero il Paese per chiedere riforme si avviò una spirale di morte, distruzione, infiltrazione di mercenari e servizi segreti stranieri che stanno tuttora mettendo a dura prova il governo in carica. D’altronde, come diceva lo scrittore e giornalista Chuck Palahniuk: “Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai”. Probabilmente era scritto nel destino di Bashar al-Asad che doveva sbarazzarsi di quell’aria riservata ed apparentemente mite per divenire il condottiero capace di guidare l’intero popolo siriano in questa tragica tempesta scatenata da potenze straniere ostili.

Laureatosi in medicina a Damasco nel 1992, Bashar al-Asad si trasferì a Londra per continuare la sua formazione post laurea nel campo oftalmologico. Né la vita politica né tanto meno quella militare erano ritenute confacenti alla sua persona: ma il destino, com’è noto, spesso e volentieri riserva tutt’altro. Nel 1994, infatti, in un tragico incidente stradale muore il fratello maggiore Basil, l’erede designato alla successione. A questo punto il giovane Bashar viene richiamato in patria e indirizzato direttamente all’Accademia militare , in quanto destinato a essere investito di quel ruolo che sarebbe spettato al povero Basil.

Quando nel 2000 muore il padre, Ḥāfiẓ al-Asad, l’attuale premier siriano ha circa 34 anni. Nei primi difficili anni di governo dovette far fronte al pericolo di una possibile spaccatura nel Paese e cercare in qualche modo di liberarsi del vecchio sistema autoritario che aveva ancora una certo potere, imboccando una tortuosa strada verso un processo di democratizzazione cominciato con alcune riforme economiche.

La situazione in Siria ancora adesso però resta gravissima e le dichiarazioni del Nunzio apostolico a Damasco Mons. Mario Zenari costituiscono un’ulteriore conferma: ”La popolazione civile ormai non ne può più, la situazione è in progressivo deterioramento, a cominciare dalla mancanza di lavoro, dalle fabbriche distrutte, dalle case in rovina, la mancanza di scuole… Quella che un tempo era la classe media, ora è in povertà e i poveri di un tempo, oggi sono in miseria”.

Le tristi immagini di persone brutalmente crocifisse da uomini del gruppo takfirista dell’ISIS, che negli ultimi tempi sono provenute dalla provincia siriana di Raqqa, sono il simbolo della tragica guerra civile vissuta da circa tre anni da un intero popolo. Il conflitto, in cui l’ESL (Esercito Siriano Libero) e una serie indistinta di gruppi takfiristi (tra i quali spiccano il Fronte Al-Nusra, il Fronte Islamico e lo stesso ISIS) combatte l’esercito regolare siriano, ha provocato oltre 140.000 morti e circa 2 milioni e mezzo di sfollati, traducendosi in una vera e propria catastrofe umanitaria.

Traffico d’armi, “aiuti” di ogni genere provenienti da Paesi stranieri vicini e lontani, distruzione, esecuzioni sommarie: storia dell’inferno siriano. I Governi occidentali di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Israele con il sostegno della Turchia e delle monarchie wahhabite dell’Arabia Saudita e del Qatar appoggiano la fazione dei cosiddetti “ribelli” contro il governo di Assad, il quale è a sua volta sostenuto da Russia, Cina, Iran e dal gruppo libanese Hezbollah.

Per capire la complessità dell’odierno mondo arabo bisogna in realtà tornare un po’ indietro, precisamente negli anni appena successivi alla Prima Guerra Mondiale. Caduto l’Impero ottomano, alleato di Germania e Austria-Ungheria nel primo conflitto bellico, furono Francia e Inghilterra a porre le basi per la costruzione della realtà geopolitica del Vicino Oriente,anche allo scopo di controllarne le ingenti risorse di petrolio e di gas naturale. Con l’accordo Sykes-Picot, difatti, le due suddette potenze europee si suddivisero le spoglie dell’Impero Ottomano.

La Siria e l’Irak, sulla base delle concessioni accordate dalla Società delle Nazioni, furono affidati rispettivamente alla Francia e all’Inghilterra. L’accordo Sykes-Picot ha realizzato i presupposti per la futura instabilità dell’area, con la creazione di 19 Stati caratterizzati da differenze etniche, culturali e religiose che hanno comportano notevoli problemi di convivenza. A ciò si aggiunga la famigerata “Dichiarazione Balfour”.

La Siria, com’è noto, ha importanti giacimenti di gas nelle sue acque territoriali e questi, insieme alla sua collocazione geografica, la rendono uno snodo fondamentale per il trasporto di idrocarburi fino ai mercati europei. La guerra civile e le successive sanzioni che sono state accordate al Paese nel corso di questi ultimi anni hanno non solo bloccato le esportazioni siriane di greggio in Europa, ma anche le importazioni dei prodotti petroliferi, obbligando in tal modo il governo siriano a rivolgersi a Paesi come il Venezuela, l’Iran e la Russia. Indubbiamente la politica energetica è stata all’ordine del giorno del governo di Assad, in particolare una forte attenzione è stata garantita al settore del gas: non solo sfruttamento di tale risorsa, ma anche piani infrastrutturali capaci di garantire, oltre all’approvvigionamento anche un ruolo strategico di transito per i produttori dell’area e per il mercato finale del vecchio continente.

Una politica – in poche parole – quella che nel 2009 lo stesso premier siriano definì “La strategia dei quattro mari”, cioè un piano per posizionare Damasco come centro vitale per il transito e commercio di carattere energetico, più la previsione di una sostanziosa parte di investimenti nella realizzazione di gasdotti tra il Mar Caspio, Golfo Persico, Mar Nero e Mediterraneo. In una conferenza congiunta ad Ankara con il presidente turco Abdullah Gul, Assad aveva dichiarato che tale piano strategico era utile per integrare lo spazio economico tra Siria, Iran, Iraq e Turchia e consacrare il suo paese come hub regionale di transito del petrolio e del gas, grazie alla sua posizione tra l’Europa e le principali zone di produzione tra il Golfo Persico e il Mar Caspio.
Progetto davvero ambizioso, ma che certamente avrebbe creato non poche tensioni con gli altri “competitor” regionali.

Per qualcuno un tal tipo di politica voleva significare spingersi un po’ troppo oltre certe ambizioni, e il governo Assad fin da subito ha dovuto subire spiacevoli conseguenze: il bombardamento all’oleodotto Kirbuk-Banias nel 2003 ne è stato una conferma. Il premier siriano condannò pubblicamente la guerra degli americani in Iraq e come ritorsione vi fu il bombardamento di tale conduttura che aveva servito per circa 50 anni i due confinanti Paesi: l’Iraq e appunto la Siria. Altra “spiacevole” conseguenza fu il “Syria Accountability Act” che nel 2004 fu varato dal Congresso statunitense, col quale furono previste una serie di sanzioni commerciali e finanziarie con lo scopo di mettere in ginocchio il Paese. La costruzione inoltre dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan ha avuto come fine “punitivo” quello di escludere la Siria dai benefici derivanti dalle royalty, in quanto l’infrastruttura non passa per il Paese.
A tutt’oggi questa è l’unica conduttura che trasporta il greggio nel vecchio continente.

Le domande adesso che potremmo porci sono queste: perchè? A chi giova?
Tentando di fare una più attenta analisi della situazione, subito balza all’occhio un particolare di non poco conto. La produzione petrolifera della Siria è gestita dalle sue compagnie nazionali: la Syrian Petroleum Company e la Syrian Gas Company, con piccole quote di minoranza per gli stranieri. Tutto questo ovviamente tenendo bene in mente le importanti riserve di gas, soprattutto nelle sue acque territoriali, e la posizione di transito strategica, come detto poco prima.

Ricerche recenti hanno infatti confermato che le risorse di gas nel mediterraneo sono ingenti e alla Siria tocca una bella fetta. Rovesciare Assad quindi vuol significare poter mettere le mani su un “tesoro” che fino ad oggi è rimasto in gran parte inesplorato.
Se c’è inoltre uno stato che guarda con un occhio malevolo il tutto è il Katar, concorrente regionale per il gas con una riserva che è ritenuta la terza su scala mondiale (Qatar Morth Dome con 900 miliardi di metri cubi).

Tra l’altro, anche il trasporto del gas in Europa è una priorità per i produttori mediorientali, ed in questo vi sono progetti contrapposti in merito. Qualche anno fa la Turchia cercò di negoziare invano con i sauditi la costruzione di un gasdotto che sarebbe passato proprio sul territorio di quest’ultimi per poi agganciarsi al Nabucco (infrastruttura di marca statunitense che ha lo scopo di portare il gas centroasiatico verso il Mediterraneo e poi, da lì, in tutta Europa, col fine di sganciare il vecchio continente dall’orbita russa e dai suoi programmi energetici antagonisti e cioè il Southstream e il Northstream).

Il rifiuto dei sauditi a tale progetto ha complicato i piani, e allora si sarebbe dovuto optare per una soluzione di ripiego che avrebbe previsto il passaggio del gasdotto non solo in Giordania e Irak, ma anche in Siria, fino alla Turchia snodo finale delle forniture qatariote. Ecco che Turchia e Qatar, l’uno perchè aveva già accordi di fornitura con alcuni Stati europei, l’altro con la speranza di incrementare le proprie forniture, hanno avvertito la necessità di abbattere un “ostacolo” che sbarrava loro la strada per il compimento finale di tale progetto: la Siria di Assad. Subito pronta allora la propaganda occidentalista contro il giovane medico di Damasco, additato come sanguinario dittatore e grave pericolo per l’ordine internazionale. Campagne denigratorie, finanziamenti a ribelli anti-regime (Isis o Daesh) tutto per cercare di rovesciare il governo in carica siriano.
Certamente, la storia ce lo ricorda, il possesso di grandi quantità di risorse di gas, come nel caso della Siria, al di là di ogni valutazione indubbiamente positiva, costituisce non poche volte una vera e propria dannazione.

La zarina Caterina II affermava che proprio cominciando dalla Siria si può “possedere la chiave di casa Russia”: l’allusione è anche all’opportunità di agganciarsi alla famosa via della seta della Cina. Assad, infatti, ben comprendendo il tutto, si era affrettato a concludere accordi per il trasporto del gas iraniano verso il Mediterraneo in modo da mettere fuori gioco i competitor del progetto Nabucco.

Il mosaico è realmente complesso: interessi economici, accaparramento di fonti energetiche, questioni religiose. Ogni tassello a sua volta è dotato di un’ulteriore complessità di valutazione.
Il mondo arabo rappresenta evidentemente un fondamentale campo di battaglia per tutti i motivi poc’anzi enunciati. Poco prona al richiamo della logica mondialista e globalista, una tale realtà resiste ancora imperterrita e ben salda nelle sue radici e nella sua cultura.
Le primavere arabe tra l’altro sarebbero servite appunto a questo: cercare d’imporre regimi facilmente manovrabili dalle potenze occidentali (USA in primis) e inoltre minare la convivenza pacifica tra le diverse confessioni religiose: sciiti, sunniti e cristiani.

Paese a maggioranza sunnita, ma con un presidente alawita, la Siria è reputata il centro del nazionalismo arabo non integralista. Gli alleati regionali del regime sono: Iran, Iraq, Libano e Palestina, che possiamo anche definire probabilmente come gli ultimi ostacoli da abbattere per la creazione di un nuovo ordine mediorientale disegnato da Israele e USA che hanno finanziato e utilizzato in tutti questi anni l’universo combattente wahhabita per favorirne la realizzazione.

Non solo quindi risorse energetiche. Penetrare nel Vicino Oriente vuol significare contrastare e in qualche modo provare ad arginare l’avanzata russa e cinese nello scacchiere internazionale.

Il 2014 è stato un anno segnato da eventi che avranno probabilmente importanti ripercussioni negli equilibri geopolitici mondiali: la crisi ucraina, il fenomeno ISIS, il “santo Graal” energetico cino-russo, le sanzioni al governo di Mosca e l’attacco speculativo al rublo.

Non solo questo però. E’ di questi giorni infatti la notizia che lo scorso 4 dicembre la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti con 410 voti a favore e 10 contrari ha approvato una risoluzione che sostanzialmente concede al Presidente, in caso di necessità, senza alcuna autorizzazione da parte dell’organo legislativo, di usare ogni mezzo possibile, dalle sanzioni agli atti di guerra: è chiaro il riferimento in questo caso alla Russia. La stessa legge prevede inoltre un’ulteriore stanziamento di circa 350 milioni di dollari nella fornitura di armamenti all’esercito ucraino con la “speranza” da parte di Obama di poter fermare l’avanzata russa nell’Est nel Paese.
Mossa quanto mai rischiosa e pericolosissima quella degli USA.

Mosca nel frattempo, colpita dall’attacco speculativo al Rublo, è sempre più spinta tra le braccia dei cinesi, i quali tra l’altro hanno annunciato da poco l’inizio della convertibilità dello Yuan, seguita da un processo di de-dollarizzazione. Da fine mese infatti gli scambi fra Cina, Malesia, Russia e Nuova Zelanda potranno effettuarsi con le valute locali, senza alcun bisogno del dollaro.
Si prevede un 2015 carico di nuove tensioni e colpi di scena. Non resta semplicemente che augurare che possa essere un anno all’insegna del buon senso e del dialogo costruttivo. Ai posteri poi l’ardua sentenza.

Giuseppe Perrotta*

*Giuseppe Perrotta è laureato in Giurisprudenza presso l’Università del Sannio

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