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KOSOVO, PUNTO DI NON RITORNO

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I pericoli delle profondità della miniera di Trepça, luogo simbolo di uno degli scioperi più duri nella Jugoslavia del 1989, rappresentano più che l’importante complesso industriale di Mitrovica la metafora dell’attuale crisi politica in cui versa il Kosovo. Divisa dalla parte sud del fiume Ibar in cui lavorano anche minatori albanesi e quella a nord nella zona di Zvečan a maggioranza serba, le cavità minerarie hanno in ogni loro ingresso la scritta “Me Fat”, ossia “buona fortuna”. Fortuna, che da molti mesi sembra aver abbandonato le istituzioni di Priština.
Proprio durante le commemorazioni per il settimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza da Belgrado, l’inizio dello sciopero dei minatori di Mitrovica, sede del principale pozzo della Trepça, ha coinciso con l’acuirsi dell’ennesimo stallo politico.

Alla base dello stato di allarme vi è l’alto numero di cittadini kosovari che stanno spopolando interi quartieri della stessa città di Mitrovica, come di Drenica, Shala, Drenas, Skenderaj e Vushtrri, per iniziare il loro cammino verso altri Paesi europei. Diretti prima a Belgrado e subito dopo verso la città di Subotica in terra ungherese, vero trampolino di lancio per l’arrivo in Germania, Francia o Svizzera, migliaia di famiglie stanno abbandonando il Kosovo poiché esasperate dalle tragiche condizioni di povertà dettate dalla crisi economica e dall’alto livello di disoccupazione. Ad emigrare verso i Paesi dell’Unione Europea non sono soltanto giovani e disoccupati, ma anche tutti coloro i quali hanno lasciato un lavoro retribuito con un media di un paio di euro al giorno.
Quello che appare evidente oramai da tempo è come gli obiettivi prefissati da Priština nel 2008 stiano lentamente diventando quasi irraggiungibili. La comunità internazionale inoltre, insieme all’Unione Europea, dopo aver legittimato e riconosciuto la Dichiarazione d’Indipendenza dalla Serbia, rimane inerte dinnanzi i drammatici scenari che stanno destabilizzando l’intero Kosovo.

Dopo il blocco delle attività parlamentari durato oltre cinque mesi dovuto all’incapacità politica del neo-governo di eleggere il proprio Presidente dell’Assemblea, le critiche dichiarazioni nei confronti della comunità albanese rilasciate dal Ministro delle Comunità e dei Ritorni, Aleksander Jablanovic, hanno scatenato a Priština una vera e propria guerriglia urbana.
L’arresto di Shpend Ahmeti, sindaco della capitale kosovara e leader del partito Vetëvendosje, insieme ad un centinaio di manifestanti albanesi, dimostra come le più elementari regole di sicurezza siano completamente inosservate anche da figure istituzionali e politiche. Realtà che ha già caratterizzato il Kosovo nello scandalo di traffici illeciti e crimini contro la comunità serba che videro coinvolti gli ex primi ministri Ramush Haradinaj e Hashim Thaçi.

Più paradossale appare l’atteggiamento della comunità kosovara di etnia non albanese che negli ultimi giorni ha chiesto un intervento risolutore da parte di Belgrado; i kosovari-albanesi, invece, continuano a vedere qualsiasi forma di dialogo proprio con la Serbia come una reale minaccia alla sovranità statale del Kosovo.
Momentaneamente la Serbia coopera come sempre fatto nell’attuazione delle basilari misure di sicurezza al confine con la regione Nord del Kosovo, dialogando con le autorità di polizia ungherese per raggiungere una migliore unità d’intenti nel controllo del flusso di migranti e criticando Priština quando ritenuto opportuno.
L’accusa incassata dalla autorità albanofone direttamente dall’Ufficio Governativo serbo per il Kosovo, a causa della profanazione di diversi luoghi di culto ortodossi a Obilic e Gnjilane, palesa la rilevante posizione di Belgrado nei rapporti bilaterali.
Dinnanzi all’attuale scenario, l’ultimo accordo raggiunto tra il Premier serbo Aleksander Vučić e il suo alter ego kosovaro Isa Mustafa sul tema giustizia e immigrazione illegale, pone proprio la Serbia come possibile partner strategico per un ritorno alla normalità. Infatti, come evidenza la Risoluzione n.1244 dell’Onu, ufficialmente il Kosovo rimane ancora legato alla sovranità di Belgrado che ne riconosce solo l’autonomia della regione. I poteri di veto al Consiglio di Sicurezza Onu di Russia e Cina, contrari da sempre all’indipendenza kosovara, potrebbero giocare un ruolo fondamentale in futuro se lo scenario di crisi dovesse richiedere un nuovo intervento delle autorità internazionali.

La situazione in Kosovo è stata infatti sottolineata in una delle ultime assemblee generali delle Nazioni Unite direttamente dal Segretario Ban Ki-moon. Quest’ultimo ha espresso le sue più serie preoccupazioni non solo per il fenomeno migratorio in fieri, ma per gli illeciti che tale scenario potrebbe nascondere e sviluppare in futuro.
Da un paio di mesi molti mass media, sia serbi che kosovari, hanno sottolineato possibili illeciti derivanti dall’esodo di massa nato in Kosovo.
Le prime accuse sembrano ricadere su un presunto racket di etnia albanese in grado di trovare spazi incontrollati presso la frontiera serbo-ungherese e aiutare soprattutto cittadini albanesi residenti in Kosovo a raggiungere altre parti d’Europa.
Le statistiche redatte dall’Ufficio Immigrazione di Belgrado confermano che circa ventiseimila albanesi hanno ricevuto il passaporto serbo ma, visti i report pubblicati da giornali sulla quantità di persone che giornalmente abbandona il Kosovo, potrebbe essere facilmente confermata l’idea che vi sia un illecito giro d’affari nel rilascio di documenti biometrici a cittadini kosovari capaci così di lasciare il Paese.

Al di là delle forti manifestazioni dei partiti filo-albanesi Vetëvendosje e Aleanca për Ardhmërinë e Kosovës, è proprio la cooperazione tra Priština e Tirana che è stata criticata dalle stesse autorità serbe e ungheresi.
La recente inaugurazione del “Corridoio di Transito Comune” voluto dalla Direzione Generale delle Dogane di Albania e Kosovo, se da una parte consentirà ai cittadini di entrambi i Paesi un rapido attraversamento della frontiera, per Serbia e Ungheria rappresenta il rischio di creare un passaggio legalizzato, difficile dunque da controllare, che dai “Balcani occidentali” conduce facilmente verso l’Unione Europea. Inoltre, l’atteggiamento passivo di Priština al confine con la Serbia, spaventa ancor di più Vučić per un possibile incremento dello stato di insicurezza ed il conseguente rallentamento del percorso di avvicinamento e integrazione nell’Unione Europea.
Il pericolo di realizzare una “zona franca” non spaventa solo Belgrado. Quasi tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, specialmente Germania, Austria, Francia e Svezia, hanno constatato con preoccupazione che la partecipazione di molti albanesi all’interno del fenomeno dell’Islamic State rappresenta un possibile pericolo dopo i fatti di Parigi.

Mentre la rappresentanza Ue a Priština ha garantito che tutte le prossime domande di asilo presentate verranno regolarmente respinte per mancanza delle condizioni giuridiche di rilascio (persecuzioni, guerre, calamità di vario genere), Berlino ha dichiarato di aiutare nell’umano rimpatrio i migranti arrivati negli ultimi giorni dal Kosovo.
La mossa tedesca, simile a quella ungherese che ha rispedito indietro i rifugiati, arriva dopo l’accordo bilaterale siglato nel 2004 che favoriva l’occupazione stagionale di cittadini proveniente dal Kosovo in Germania. Dal Ministero degli Affari Esteri per i Balcani, Turchia e Paesi dell’European Free Trade Association, è stato emanato un comunicato ufficiale dove Berlino garantisce il suo impegno nella cooperazione con il Kosovo nel ripristino della vicenda riguardante l’immigrazione illegale.
Il rappresentante ufficiale del Ministero degli Esteri tedesco, incontrando la presidente della Repubblica di Kosovo, Atifete Jahjaga, ha visitato la parte meridionale di Mitrovica. Entrambi hanno chiaramente detto alla cittadinanza di non tentare di lasciare il Paese perché non sarà più possibile farlo.

Dopo i traffici illegali di organi, armi e droga, il Kosovo si candidata a divenire il nuovo “buco nero d’Europa” detenuto in passato dall’Albania. Tutto ciò continua ad evolversi intorno ad una continua erosione della legittima autorità politica messa a dura prova dall’etnia albanese, da un insufficiente controllo del territorio nella parte Nord, dalle palesi incapacità di fornire servizi pubblici come il lavoro ed una sempre maggiore difficoltà di interagire con l’estero.
Che sia il Kosovo il prossimo “Stato fallito” generato dalla comunità internazionale?

Francesco Trupia

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